Da tempo mi interrogo sulla attualità del concetto di democrazia; di questo glorioso retaggio di una delle civiltà che più in profondo hanno segnato la nostra, quella dei Greci; di quella forma di governo che, quantomeno nell’epoca moderna, è divenuta progressivamente l’unica ad essere accettata come modello ideale per il ventesimo secolo.

Proprio il mio convinto amore per la democrazia mi rende sgomento quando assisto al suo progressivo perdere di significato negli ultimi decenni. Ricordiamolo ancora: democrazia significa essenzialmente possibilità, da parte dei cittadini, di decidere secondo coscienza chi li debba governare; ove, a mio modesto avviso, il fulcro, il punto fondante è quel “secondo coscienza”, il cui predicato è inevitabilmente la consapevolezza ed il libero orientamento del pensiero.

Negli ultimi anni, tuttavia, la minaccia alla democrazia non è da ricercarsi tanto nell’affermarsi di regimi dittatoriali in alcune parti del mondo, quanto, paradossalmente, nel progressivo affermarsi di forme tanto sottili quanto esiziali di condizionamento del pensiero nei cosiddetti “Paesi liberi”; quelli, cioè, nei quali la libertà sta venendo declinata soprattutto con riferimento all’accesso alle informazioni ed alla possibilità di divulgarle e commentarle in modo espansivo, con l’ausilio, spesso determinante, dei social network. Ciò ha provocato due conseguenze, a mio parere estremamente pericolose: da un lato, la bulimia informativa, cioè la divulgazione di informazioni caotiche, frammentarie, spesso palesemente false ma, ed è questo l’aspetto più critico, non facilmente distinguibili, nel marasma comunicativo, da quelle vere; dall’altro, la possibilità di sfruttare la recettività dei cittadini come sorta di “cavallo di Troia” per orientarne le opinioni, ai fini politici, sociali ed ovviamente commerciali.

La lettura recente di un bellissimo romanzo di Eggers, Il cerchio, mi ha definitivamente confermato ciò che da tempo affermo e di cui discuto con i miei studenti: la “gabbia di vetro”, la democrazia digitale, non sono in sé dei valori; o meglio, rischiano di creare disvalore nella misura in cui abbassino la guardia dei cittadini, non facendo comprendere loro quali siano le reali conseguenze delle loro scelte ed orientandole in maniera subdola.

Da questo punto di vista, il caso del referendum sulla Brexit è esemplare. Legato per vari motivi alla Gran Bretagna, ho seguito in maniera assidua la campagna elettorale, che ho avuto modo di commentare con i miei amici inglesi. Mi sono dunque reso conto che il grado di consapevolezza sulla reale posta in gioco era davvero basso, e segnato più dalla memorizzazione di efficaci slogan (“Britain First” “See EU” “Stronger IN”) che dall’approfondimento delle conseguenze del Leave o del Remain. Quanti degli elettori britannici che hanno votato per l’uscita si rendevano conto che il Regno Unito, fuori da Schengen e dall’Euro, aveva di fatto tutti i vantaggi dell’appartenenza all’Unione senza significative limitazioni di sovranità? Ed ancora, in maniera più estrema e se vogliamo provocatoria: è giusto che cittadini giovani, consapevoli ed informati paghino la conseguenze della scelta dei loro connazionali che hanno votato senza rendersi conto della posta in gioco?

Non è certo mia intenzione predicare un voto per censo, o piuttosto per livello di istruzione. Mi chiedo solo se, atteso che minore è il livello di consapevolezza, maggiore è la possibilità di manipolare le coscienze (motivo per cui le dittature, in genere, scoraggiano l’istruzione) abbia ancora senso di parlare di democrazia come noi la conosciamo. Sino a qualche tempo fa ipotizzavo che andassimo incontro a forme di Tecnocrazia, memore delle indimenticabili intuizioni di Frederick Soddy in The role of money. Oggi, mi verrebbe da pensare che il futuro che ci attende sia piuttosto in mano agli esperti di marketing digitale. E questo pensiero mi angoscia.

Giuliano Lemme