di Giuliano Lemme

Il dibattito sul Transatlantic Trade and Investment Partnership, meglio noto con l’acronimo TTIP, si arricchisce ogni giorno di nuove voci, tra chi sottolinea l’apporto in termini di aumento della ricchezza di UE ed USA (si parla di qualche centinaio di miliardi di euro di incremento del PIL, anche se queste cifre sono contestate da alcuni economisti) e chi paventa un affievolimento, quando non un totale venir meno, degli standard di prodotto e delle tutele di welfare che caratterizzano le economie europee.
Premetto subito che io mi schiero in quest’ultimo campo, del resto autorevolmente sostenuto da Joseph Stiglitz. La mia posizione nasce da una serie di considerazioni, tra le quali, per mia personale sensibilità e per gli oggettivi pericoli insiti nel Trattato (almeno, stando ai testi sinora noti) spicca il problema della regolamentazione del settore agro-alimentare.
Proprio in questo settore (non a caso, quello su cui si concentrano i maggiori sforzi delle lobbies d’Oltreoceano) la normativa europea e quella americana divergono in maniera decisamente sostanziale. Basti citare due casi: quello dell’uso di ormoni e antibiotici per l’allevamento di animali da macello e quello degli OGM. In tutti questi casi, le evidenti divergenze derivano dall’applicazione del principio di precauzione, fondamento della UE, in base al quale, sinché non si provi la sicurezza di un prodotto, questo non può essere messo in commercio. Negli USA vige il principio opposto: sinché non si provi che un prodotto è dannoso, non si può vietarne il commercio. Ecco il motivo per cui negli Stati Uniti non è neppure obbligatorio indicare la presenza di ingredienti OGM nelle etichette degli alimenti.
Ma i problemi, per il settore agroalimentare, non si fermano qui. L’Europa ha costruito nel tempo, sull’esempio francese, una legislazione di tutela delle denominazioni di origine, che preserva, in un continente nel quale l’agricoltura ha una funzione economica non certo primaria, prodotti e tecniche di nicchia, che costituiscono il vanto dei Paesi dell’Unione. Alcune di queste produzioni, specie francesi ed italiane, sono oggetto di imitazioni più o meno lecite, per le quali l’industria statunitense vorrebbe fossero allentati i vincoli all’esportazione nei Paesi europei. La possibilità che venga venduto in Svezia, ad esempio, un Barolo made in USA è dunque uno degli obiettivi perseguiti dalle lobbies.
Si aggiunga a queste considerazioni uno dei punti più controversi in discussione: la possibilità che lo Stato firmatario che decida di approvare leggi in contrasto con gli interessi delle lobbies venga citato in giudizio davanti ad un tribunale arbitrale privato (c.d. ISDS, Investor to State Dispute Settlement). Ci sono allarmanti precedenti in questo senso: la Philip Morris ha citato in giudizio di fronte ad arbitri Norvegia, Australia ed Uruguay per aver vietato la pubblicità dei prodotti da fumo. So bene che l’art. 11 Cost. prevede esplicitamente che si possa limitare la sovranità italiana in nome di superiori interessi internazionali, ma quando il Parlamento, e con esso lo Stato, debbano rispondere alle multinazionali per aver difeso la salute dei cittadini vi è chiaramente un vulnus ai più elementari principi democratici.
A fronte di questi danni potenziali – cui si aggiunge la possibilità dell’abbassamento degli standard di tutela del lavoro, al fine di aumentare la competitività – mi sembra che i potenziali vantaggi, tutti del resto da verificare, non siano di tale portata da consentire di approvare il Trattato così come viene proposto. Lo stesso Stiglitz ha sottolineato che i dazi doganali sono già al minimo, e basterebbe abolirli o abbassarli ulteriormente per ottenere un incremento del commercio transatlantico senza grandi rischi.
Significativamente, questo singolo punto sembra quello cui i negoziatori tengono meno, puntando piuttosto alla “armonizzazione legislativa”. Ma allora, che l’Europa dimostri che è una vera potenza commerciale e politica, e difenda la propria tradizione regolatoria, fondata sull’ordoliberismo della Scuola di Friburgo, piuttosto che, come qualcuno ha detto, ritenersi onorata semplicemente per sedersi al tavolo con la prima economia mondiale.