Cognome materno: relazione di Antonella Anselmo al convegno al Senato

RIFORMA SUL COGNOME – SENATO SALA ZUCCARI

     8 OTTOBRE 2021

Ringrazio la Presidente del Senato, le Senatrici e i Senatori della Repubblica per quest’invito a partecipare al tavolo di lavoro sulla riforma del cognome del figlio e della figlia. Cercherò di dare il mio breve contributo come giurista e come componente del Consiglio Direttivo della Rete della Parità, impegnata fin dall’anno della sua fondazione, a denunciare l’invisibilità delle donne e la discriminazione di Stato.

1. I progetti di riforma.

Le molteplici iniziative del Parlamento intraprese nel corso della 17° e 18° legislatura, da ultimo il DDL 2276 Senato, sono indicative della crescente attenzione dell’opinione pubblica sulla questione. Purtroppo non può non rilevarsi la  lentezza del processo riformista volto a dare attuazione ai principi costituzionali. L’esigenza di riformare la materia è oramai indifferibile, come confermato da ultimo dall’ordinanza della Consulta 11 febbraio n. 18 che solleva innanzi a sé, questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 262 primo comma c.c. nella parte in cui, pur a seguito della sentenza 286 del 2016 della medesima Consulta,  impone che – in mancanza di diverso accordo  tra i genitori – il figlio acquisisca il cognome paterno anziché i cognomi di entrambi i genitori.

Fatto è che, ancora oggi, nonostante la giurisprudenza costituzionale sopra richiamata,  il nostro ordinamento giuridico non è riuscito ad espungere del tutto l’evidente retaggio patriarcale alla base degli Stati moderni ottocenteschi. Da qui l’esigenza di una legge.

2. Il significato profondo della riforma come si evince dalla sent. 286/2016 Corte costituzionale.

L’eguaglianza di genere, richiamata dalla Consulta, è una questione che sta assumendo sempre più attenzione, specie all’esito degli obiettivi di inclusione sociale e di parità economica dettati da Agenda 2030. Il PNRR, coerentemente alle politiche UE,  segna delle direttrici importanti, di natura trasversale, per garantire opportunità alle donne in condizioni paritarie. Si pensi alle recentissime modifiche del Codice di Pari Opportunità, come la certificazione di genere, e poi il bilancio di genere, le iniziative di contrasto nei confronti delle molestie nei luoghi di lavoro, la parità salariale,  i fondi per l’imprenditoria femminile, le premialità per le imprese con governance women friendly in materia di contratti pubblici, le garanzie nel ricorso al lavoro da remoto ecc. Queste riforme, importantissime e frutto della collaborazione tra le donne impegnate in politica e le associazioni femminili, rischiano tuttavia di approdare verso un convincimento di tipo economicistico: l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro, e la valorizzazione del loro apporto e delle loro competenze, sarebbe giustificata in quanto bene e/o utilità per l’economia e per la competitività delle imprese. Donne, non come peso economico, ma come risorsa!

Ora, è indubbio che l’utilità sociale possa indirizzare il decisore politico nel coordinare e promuovere le libertà economiche in conformità all’art. 41 comma 3 Cost. e ai Trattati Europei, ma una visione profondamente democratica non può accontentarsi solo di questo.

I diritti esigono tutele in quanto tali.

Le libertà economiche presuppongono valori metagiuridici, riconosciuti dai principi costituzionali delle Carte costituzionali e sovranazionali, come patrimonio fondamentale della persona. È questo il senso della riforma che auspica la Corte Costituzionale: la parità dei coniugi come valore solidaristico dei vincoli familiari capace di garantire, al figlio e alla figlia, il diritto pieno alla sua identità.

I nessi individuati dalla Consulta, allora sono inscindibili e in qualche modo indirizzano la riforma.

I diritti civili e politici delle donne debbono essere riconosciuti e garantiti in quanto tali, e non necessitano di giustificazioni ulteriori né di un approccio utilitaristico che ne autorizzi l’ingresso nell’ordinamento giuridico.

 Ma vi è di più.

I diritti al nome e alla pienezza identitaria, inquadrabili come diritti fondamentali della persona (dunque addirittura fatti naturali, preesistenti allo status di cittadina/o e alla creazione del diritto) si radicano nella visione personalistica e solidaristica degli ordinamenti sovranazionali e costituzionali. Punto focale dell’ordinamento democratico contemporaneo è la persona, la sua dignità, anche sociale, posta come fine ultimo delle garanzie e degli apparati del sistema politico e democratico. Questo approccio vale sia per la madre sia per il figlio e la figlia.

In questa diversa prospettiva il nome e l’identità sono diritti pieni, assoluti e incondizionati.

Se è vero questo presupposto, la scelta concreta del legislatore è in qualche modo ben orientata dai principi costituzionali: sia nel merito sia nel linguaggio.

3. Nomina sunt conseguentia rerum[1].

Il diritto è una creazione culturale e come tale esprime i valori del tempo della sua produzione. Il nome e il cognome sono sempre stati rivelatori della concezione della persona, intesa come singolo individuo ma anche come vissuto e origine, nelle relazioni sociali e familiari nel quale la stessa è inserita fin dalla nascita. Nel corso della storia, e a seconda dei contesti geografici, il cognome ha indicato il patronimico, la gens di appartenenza, la provenienza della comunità di riferimento, i mestieri, l’aver avuto genitori ignoti ecc. Il nome è un bene-valore. Nell’antica Roma le donne non avevano diritto al prenomen; mentre la damnatio memoriae era la cancellazione del prenomen come condanna nei confronti di chi tradiva l’Urbe.

Nel 1564, dopo il Concilio di Trento, si impone ai parroci di tenere un registro ordinato di tutti i battesimi con i nomi e i cognomi: ciò al fine di evitare i matrimoni tra consanguinei. Il registro dei battesimi è la prima forma di registrazione anagrafica della popolazione e risulta collegata alle funzioni pubbliche, per lo più di spettanza comunale di censimento, arruolamento alla leva militare, riscossione dei tributi [2]

Il patriarcato – strettamente legato al patronimico – è stato addirittura accentuato dalle rivoluzioni borghesi dell’ottocento, all’esito delle quali si sono edificati gli stati moderni. Il Codice civile del Regno d’Italia del 1865, che deriva dalla codificazione napoleonica, riconosce il padre come titolare della patria potestas e capo della famiglia: da lui discende la trasmissione della cittadinanza e della residenza dei figli. La moglie ha un ruolo subordinato ai diritti potestativi del marito anche per gli affari economici, subordinati all’autorizzazione maritale. La famiglia è vista come istituzione tanto da contemplare l’istituto del consiglio di famiglia.

Anche dal punto di vista linguistico il codificatore si riferisce solo al figlio, e mai alla figlia, nell’odiosa accezione neutra del termine maschile, che non trova alcun conforto sul piano della correttezza linguistica.

4. Obiettivi della riforma.

Se tali sono le radici del patriarcato che ancora contaminano il nostro ordinamento, una riforma coerente rispetto ai principi costituzionali deve a mio parere perseguire i seguenti obiettivi.

1. Accogliere un approccio soggettivistico radicato sulla dignità e non su antiche visioni proprietarie: l’individuazione della persona (figlio o figlia) titolare della sua identità è fatto prioritario rispetto ai genitori, titolari di diritto potestativo a trasmettere il proprio nome alla prole. È qui la rivoluzione copernicana, dal forte valore simbolico e culturale. Il nome non è un marchio di appartenenza da trasmettere alla prole, ma è il diritto al riconoscimento di un legame familiare, biologico o affettivo che sia;

2. Qualificare il diritto al cognome come diritto fondamentale alla piena identità, e dunque sul piano sociale e familiare al riconoscimento della doppia origine (rispettivamente, per via materna e paterna);

3. Conseguentemente, legiferare in materia senza incidere sul carattere assoluto e incondizionato del diritto fondamentale: porre l’automatismo, ope legis, del doppio cognome – materno e paterno – come regola generale e limitare l’elemento volontaristico e consensuale, in via residuale per gli ulteriori aspetti di dettaglio (l’ordine, ad esempio).

4. In ultimo, ma di non minore importanza porre attenzione al linguaggio adottato, espungendo il maschile neutro, sconosciuto alla lingua italiana, ed evitando discriminazioni linguistiche.

Attenzione quanto mai opportuna atteso il significato simbolico e culturale della tanto attesa riforma.

Il tempo è ora. Auguro un buon lavoro al Senato della Repubblica.

Antonella Anselmo  


[1] Giustiniano, Institutiones, libro II, 7,3

[2] Anagrafe della popolazione, Metodi e norme, serie B, n.29 1992 edito da ISTAT